Il censimento mi innervosisce. Mi fa pensare a Erode, alla strage degli innocenti, all’intreccio evangelico di perfidie romane. L’imperatore Augusto, direbbero i romani di oggi “era in fissa con i censimenti”, li ordinava a ripetizione ai suoi governatori. Voleva conoscere la potenza militare delle province lontane, in particolare erano piuttosto solerti i suoi luogotenenti di Siria e Giudea. Voleva, come tutti, anche stimare le ricchezze e tassare. Duemila anni dopo, il questionario sul numero dei gabinetti, la data del matrimonio, i corsi di formazione passati presenti e futuri, sembra una perdita di tempo a tutti. Ma come? Siamo spiati e incasellati fin dalla nascita: arriva prima il codice fiscale dell’anagrafe, prima il bollino del ministero delle Finanze del battesimo e state qui a chiedere se abbiamo il posto macchina coperto o no? Dicono: ma l’Istat è così preciso al millimetro che tu, pennivendola, non devi permetterti di contestare. L’Istituto sarebbe così scientifico grazie alla nostra collaborazione. Noi gli diciamo tutto e lui fa le somme, le divisioni, le moltiplicazioni e alla fine ci dice come siamo.
Bum. Intanto saranno felici Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema: il loro sogno si è realizzato. La categoria è stata sterminata con la bomba atomica meccanografica. L’Istat nella sua immensa sapienza è stato così ganzo al punto di avere abolito senza esitazioni migliaia di giornalisti. Ci sono decine di mestieri, ma ho cercato inutilmente qualcosa di simile al mio. Ho inciampato ovviamente fra gli agronomi e gli attori. Di noi, tesserati e ordinati in senso regionale (la mia carta è quasi antica, a febbraio saranno trent’anni), non ci sono tracce nelle decine di paginette. Mitica precisione statistica: via. Siamo fuori dagli schemi, siamo su un altro pianeta (delle volte lo penso anche io, quando leggo i ritratti del presidente incaricato mi sembra di sognare, se tornasse Gesù credo lo descriverebbero meno santo di super Mario). Dunque, non ci sono. Non esiste il mio lavoro: eppure, qualcuno dovrebbe avvertire gli scienziati del census moderno che gli addetti alla comunicazione (altra voce inesistente) hanno oggi perfino corsi di laurea in ogni città e capoluogo. Non essendoci, mi prendo qualche libertà. Posso criticare liberamente questo atto di fede e di sottomissione che vorrebbe incasellarci e che per farlo ci chiede di essere sinceri fino al masochismo: dovremmo confessare anche il motorino non rottamato, il portico non condonato, il cesso in garage?
Molti anni fa, intervistando un presidente di un ente previdenziale, alla fine lui volle mostrarmi cosa usciva dal cervellone (faceva molto James Bond, lo schermo era cinematografico) cliccando il mio nome. Rimasi pietrificata: c’era tutto, ma tutto quello che avevo fatto nella vita usando il codice fiscale. Dalla quota minima della macchina di mio nonno, ereditata in successione, alle assunzioni di baby sitter ormai dimenticate, dalle utenze di case in affitto mollate da decenni alle carte di credito e ai conti correnti. Capii che – volendo – chiunque può sapere veramente vita, morte e miracoli degli italiani. Altro che censimento. Basta un piccolo terminale e il catasto racconta esattamente metri quadri e categorie dei nostri immobili. Qualcuno informi l’Istat. Io, non esistendo, non posso farlo.
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