Il testimone cosciente dell'uomo inetto
Il triestino Svevo (1861-1928) non è un letterato di professione, così come molti intellettuali del Novecento, spesso lontani dalla formazione tradizionale umanistica e universitaria e più improntati ad una preparazione tecnica o scientifica. Fortemente condizionato dal suo mestiere, prima di impiegato di banca, poi di direttore di industria (dopo il matrimonio con Livia Veneziani), Svevo vive in una terra che rappresenta un’eccezionale occasione di cultura, una città mitteleuropea dove può leggere in lingua originale Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Darwin e Einstein, può apprezzare la musica tardo romantico di Brahms e di Mahler. Da autodidatta, si forma sui classici italiani, sulla narrativa francese dell’Ottocento, su Ibsen, Tolstoj e Dostoevskij. Conosce la lingua tedesca meglio dell’italiano (almeno secondo il giudizio del conterraneo U. Saba) e gli verrà talvolta mossa l’accusa di scrivere male.
La figura di Svevo precorre un fenomeno tipico dell’epoca contemporanea in campo editoriale, ovvero la ricerca di successi clamorosi, perché lui stesso rappresenta un «caso letterario», che ottiene la gloria tardivamente, solo pochi anni prima di morire, grazie all’amicizia dello scrittore James Joyce, che apprezzò la novità della sua produzione e la promosse in campo europeo. Nelle sue opere compaiono alcune profezie sulla modernità. Basti pensare all’ultima pagina de La coscienza di Zeno (1923) nella quale Svevo scrive che l’umanità rischia l’autodistruzione: «Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile […]. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto dove il suo effetto potrà essere il massimo».
Oppure si ricordi la pièce teatrale La rigenerazione nella quale il protagonista, ultrasettantenne, vorrebbe ringiovanire sottoponendosi ad un’operazione. Ma ancor più, Svevo è soprattutto un testimone del senso di inettitudine tipico dell’uomo contemporaneo. Una rapida incursione nel territorio della letteratura di quei decenni che sono stati definiti decadenti ci permetterebbe di sorprendere subito una caratteristica dei personaggi che popolano romanzi e versi scritti in questi anni. Già i titoli delle opere sottolineano la coscienza della crisi e la poca considerazione di sé proprie dell’uomo: Sogno di un uomo ridicolo (Dostoevskij), Opinioni di un clown (Erich Boll), Il poeta come saltimbanco (Aldo Palazzeschi), Il fanciullino (Giovanni Pascoli).
Lungi dalla pretesa graniticità dell’eroe antico, l’uomo del Decadentismo mostra fino quasi all’ostentazione la propria pochezza e fragilità e non si illude più di poter fare a meno di Dio, non si propone più nel suo sforzo prometeico e titanico di accedere all’Olimpo o di carpire i segreti della conoscenza. Con disincantata ironia, anzi, toglie le maschere e le superbe vesti e palesa a tutti che, crollati i grandi progetti, i suoi discorsi non possono essere presi troppo sul serio, perché è un clown, un uomo ridicolo, un saltimbanco che ama giocare e scherzare, un bambino.
Inettitudine è parola d’ordine di tutti i personaggi di Svevo. In Una vita Alfonso Nitti metterà in atto il proposito del suicidio. In maniera significativa il primo titolo del romanzo, Un inetto, che venne rifiutato dalla casa editrice, esprime, però, perfettamente l’inadeguatezza del personaggio alla vita. Baciato dalla sorte, fidanzatosi quasi senza volerlo ad Annetta, affascinante e benestante ragazza dalle velleità intellettuali, Alfonso percepirà nel tempo di non essere all’altezza della situazione e, preso dalla paura di vivere, con la scusa della malattia della mamma ritornerà al suo paesino, ove troverà realmente la madre in gravi condizioni. La morte di lei porterà Alfonso di nuovo a Trieste ove cercherà di rivedere Annetta. Sarà, però, troppo tardi. La ragazza si è fidanzata con Macario, un partito migliore. Sfidato a duello dal nuovo fidanzato, Alfonso fugge dalla vita e si suicida con il gas dell’automobile.
Parodia dell’Andrea Sperelli dannunziano, Emilio Brentani si illude in Senilità di poter corteggiare la bella Angiolina, senza legarsi sentimentalmente e affettivamente a lei. Così, l’autore inizia il romanzo: «Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: -T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti-. La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ franca avrebbe dovuto suonare così:- Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo-». Brentani si inganna, non può instaurare una relazione senza creare un legame e alla fine ritornerà solo, lascerà Angiolina, dopo aver perso la sorella Amalia, che rappresenta ancor di più l’esasperazione dell’incapacità a vivere. La senilità, cioè una vecchiaia precoce, propria di chi pensa di saper già tutto della vita e dell’amore e che perciò la realtà non abbia più niente da insegnare, si impadronisce di Brentani, che, dopo la vicenda amorosa con Angiolina, ritorna all’occhio lucido, intellettuale, cinico e triste che aveva prima. Così nell’ultima pagina Svevo scrive: «Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore […]. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio».
Tra gli inetti del mondo letterario di Svevo non si può, poi, trascurare quel Zeno Cosini, protagonista de La coscienza, che sembra non scegliere mai nella vita. Non sa scegliere l’università, non riesce a smettere di fumare, si sposa proprio con quella figlia del Malfenti che mai avrebbe voluto sposare perché brutta. Certo, nel corso delle sue memorie la sorte inizierà a cambiare, i suoi affari prenderanno a girare favorevolmente. Rimane, però, il fatto che sembrano sempre dominare una poca consapevolezza di sé e la scarsa libertà di azione, per cui anche il cambiamento nel protagonista non avviene per incontri o fatti accaduti di cui lui ha preso coscienza. Senza questa consapevolezza rimane il sospetto che il personaggio non sia davvero cambiato. L’unica coscienza che sembra aver acquisito Zeno è che la malattia, più che carattere suo specifico, è attributo inscindibile della vita dell’uomo ed è sempre, per tutti una malattia mortale, da cui non si può guarire. La malattia è, quindi, prerogativa stessa della vita, condizione inalienabile dell’uomo, che solo una catastrofe inaudita potrebbe eliminare, estinguendo, però, al contempo il genere umano.
Rispetto agli altri inetti sveviani, Zeno, pur non raggiungendo il suo obiettivo, ne ottiene altri. Non si può dire, certo, che la sorte gli sia avversa, ma non si può neppure considerare un personaggio felice. Con toni di ironia e di pacata amarezza Svevo rappresenta una condizione umana di inettitudine, non più tragica. Se non c’è tragedia, non è certo perché siano individuate risposte al problema, bensì perché il senso di leggerezza dell’essere ha iniziato ad investire l’uomo, che inizia ad accontentarsi dei propri successi materiali ed evade totalmente la domanda sul destino.
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